Maurizio Carta
L’Italia si è ritrovata post-metropolitana senza essere mai stata efficacemente metropolitana. Con un ritardo di quasi cinquant’anni dal primo piano nazionale di sviluppo – il Progetto 80 del 1968 – fondato su una visione innovativa di città metropolitane mature e metropoli di riequilibrio connesse da un’armatura di città, paesaggi e infrastrutture, siamo stati costretti, prima, ad affrettarci ad attuare le Legge Delrio (L. 56/2014) e, oggi, a rimettere in discussione il modello a causa della pandemia da Covid-19. Mentre consumavamo il ritardo nell’attuazione di un modello metropolitano vetero-gravitazionale non ci siamo accorti che, da un lato, venivamo attraversati da alcune trasformazioni delle relazioni territoriali, economiche e sociali più nomadi e fluide, fatte di relazioni complesse che non si esauriscono nel pendolarismo tra casa e lavoro, dall’altro, che il modello centripeto metropolitano era generatore di diseguaglianze e di impatti insostenibili sulla nostra vita, a partire dalla nostra stessa salute. Insomma, abbiamo preso una utopia del 1968 e l’abbiamo trasformata in una distopia del 2020.
E non è mancato chi questa metamorfosi metropolitana l’avesse riconosciuta, descritta e condivisa per ridefinire l’agenda di sviluppo del territorio, soprattutto quello italiano anestetizzato in un eterno presente[1]. Le diverse crisi che si sovrappongono (climatica, economica, sanitaria, in attesa della prossima) ci chiamano all’impegno di affrontarle come occasione per una radicale trasformazione ecologica verso protocolli di sviluppo meno erosivi, verso modelli insediativi meno consumatori e verso processi produttivi meno dissipativi. Soprattutto non è un nuovo modello quello che serve, ma un approccio adattivo in grado di rispondere tempestivamente alle esigenze in continua, e sempre più permanente, mutazione.
In Italia, soprattutto al Nord, si è perseguito un forsennato sviluppo metropolitano espansivo nella dimensione territoriale e ipercentrico nella dimensione funzionale, confidando in un “effetto gocciolamento” per il resto del paese che avrebbe avuto bisogno di adeguate catene di trasmissione del valore e, quindi, di una politica urbana nazionale. Nel resto del paese, soprattutto nel Mezzogiorno, invece, le città sfregiate dall’abbandono e i territori rurali in declino, l’imprenditoria manifatturiera locale sgretolata dalla crisi economica e le infrastrutture in dismissione funzionale sono state oggetto di volontario disinteresse o di compassionevoli politiche di compensazione o di occasionali azioni propulsive che hanno simulato una parvenza di vitalità mai stabile, perché la dialettica città metropolitane/aree interne è sempre stato un gioco violento alla spasmodica ricerca di un vincitore da idolatrare e un perdente da consolare.
La metamorfosi che stiamo attraversando da un trentennio, invece, avrebbe richiesto una visione nazionale, integrata e flessibile di città metropolitane (poche e capaci di competere nelle analoghe arene internazionali), di un’estesa armatura cooperativa di città medie connesse ai territori della produzione e di un arcipelago di aree interne fatte di montagne abitate, di borghi, di città balneari e termali, città piene d’arte, scrigni di manifatture, inestricabili tessuti di urbano e rurale, o generatrici di cultura e creatività a partire dal coraggio delle comunità. Una visione di un’Italia “multiurbana”, capace di offrire la necessaria selezione delle risorse, l’indispensabile generazione di valore, l’efficace attivazione di opportunità di lavoro e di crescita della produttività insieme alla garanzia della salute e benessere degli abitanti e alla riduzione delle diseguaglianze. Al tradizionale modello metropolitano aggregatore, centripeto e duale (tra città metropolitane e aree interne) occorre sostituire un modello di Italia multiurbana formata da sistemi di sistemi insediativi, a geometria variabile, in grado di interpretare le varie forme di agglomerazione urbana, in cui ogni città forma con il suo territorio di riferimento un organismo inseparabile, una cellula territoriale che, connessa a tante altre, formava l’Italia delle “cento città” descritta da Carlo Cattaneo nel 1858: «la città è l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua»[2]. Un’Italia pluralmente urbana poiché declina in modi differenti le forme spaziali, sociali ed economiche dell’insediamento umano. Un modello avanzato, non post-qualcosa ma convintamente altro, perché basato su una visione strategica – e quindi selettiva – che declini il territorio in differenti configurazioni insediative e produttive: piattaforme interregionali, super-organismi, territori snodo, arcipelaghi territoriali, microcosmi insediativi. Un’Italia composta da sistemi insediativi con identità, magnitudo, specializzazioni e relazioni territoriali differenziate, in grado di guidare con maggiore chiarezza la visione, il progetto e la norma delle nuove agende urbane (postpandemiche, nell’immediato, e a prova di crisi a regime), perché non siano la stanca riproposizione di pratiche tradizionali e il rituale uso di strumenti consolidati ma ormai spuntati.
Non dobbiamo perdere l’ambizione che l’organizzazione della riapertura del paese, la riattivazione del tessuto economico devastato, il governo della nuova normalità, sia una grande occasione per riarticolare il paese in sistemi insediativi diversificati, in territori dell’innovazione e in ambienti di coesione, in comunità più autosufficienti e capaci di essere rese sicure per la salute dei cittadini senza interrompere la funzionalità degli altri sistemi insediativi. Un’Italia non più basata solo su motori metropolitani fragili e che vanno in crisi allo stesso modo e allo stesso tempo, ma articolata in comunità antifragili in grado di mettere in atto funzioni di backup e di riserva davanti alle emergenze, sempre più frequenti. Il periodo postpandemico ci imporrà di reimmaginare le Città Metropolitane italiane, ridefinendole sia nella identificazione che nei perimetri (troppo inutilmente estese con un drammatico stimolo alla mobilità centripeta su cui ha viaggiato il virus come dimostrano numerose evidenze scientifiche), ma anche ripensando i loro cicli di vita interni con un diverso rapporto tra persone e spazio, tra luoghi dell’abitare e del produrre, con modalità di mobilità sostenibile non solo dal punto di vista delle emissioni ma anche della salute.
Prima di abbandonarci al canto funebre della metropoli, accontentandoci di celebrare la morte di un modello inefficiente e congestionato (e abbiamo visto anche insalubre), dobbiamo accettare con audacia la sfida di trovare un nuovo paradigma che sorregga le nuove relazioni insediative, produttive e culturali sempre più fluide, aperte e mutevoli. Abbiamo bisogno di una nuova generazione di città più adeguata a cogliere le opportunità della transizione dello sviluppo e maggiormente in grado di riattivare i metabolismi territoriali, soprattutto nelle regioni in ritardo di sviluppo. Dobbiamo elaborare nuovi paradigmi non gravitazionali che siano in grado di riconoscere e guidare le nuove relazioni iper-metropolitane che i territori locali – urbani e rurali in rinnovate combinazioni – fanno intravedere.
L’Italia multiurbana deve innanzitutto reimmaginare le Città Metropolitane, rimodellandone alcune come “super-organismi”[3], un nuovo sistema di urbanizzazione regionale policentrica con differenti specializzazioni che si proponga come un soggetto autorevole e con ben definite competenze, tra la regione e gli enti locali che lo compongono.
Il super-organismo è una nuova multi-città dell’innovazione, della creatività e delle opportunità differenziate che privilegia il recupero dell’esistente e la riduzione del consumo di risorse e di suolo e li rende un’opportunità per la diversificazione delle funzioni. È una città metropolitana realmente policentrica, che redistribuisce i flussi di mobilità in un sistema più equilibrato e diversificato. Una città sensibile al paesaggio e che comprende la natura tra i suoi fattori identitari e che è protesa alla rigenerazione delle aree sottoutilizzate come potenziamento di centralità diversificate capaci di riattivare la rigenerazione sociale e di stimolare la vitalità economica attraverso il ritorno della manifattura urbana, meno fragile alle crisi globali. In maniera complementare, dovremo anche facilitare lo sviluppo degli “arcipelaghi territoriali” come sistemi insediativi che, attingendo alle storie locali che attraversano il palinsesto del tempo e alle apparenti marginalizzazioni (che le hanno protette dalla pandemia), sono oggi in grado di offrirsi come luoghi di vita, di produzione, di educazione, di fruizione culturale alternativi all’aggregazione metropolitana e alle relative congestione e diseguaglianza. Sono sistemi insediativi ancora più policentrici e reticolari – frattali potremmo dire – che superano l’antinomia tra aggregazione e dispersione, caratterizzati da cicli di vita più circolari, capaci di fungere da hub per la connessione alle necessarie reti globali (attraverso le reti tematiche, per esempio) dei piccoli reticoli urbani e rurali locali, altrimenti esclusi dalla connessione diretta alle reti di maggiori dimensioni.
L’arcipelago territoriale è un sistema di insediamenti urbano/rurali collegati dalle trame produttive tradizionali e dalle infrastrutture di paesaggio, il cui sistema connettivo è spesso composto dai reticoli ecologici verdi e blu. Un sistema di cellule urbane addensate da interfacce vegetali – agricole o naturalistiche – con funzioni diverse che fungono da tessuto connettivo degli insediamenti urbani che smettono di essere “isole” per entrare in una più fertile dimensione reticolare, porosa e interconnessa. Gli arcipelaghi territoriali sono i luoghi della cura del territorio, dei metabolismi circolari basati sulle sapienze delle comunità, sono i luoghi dell’intelligenza collettiva prima che tecnologica.
Sia i super-organismi che gli arcipelaghi dovranno essere dotati di nuovi sistemi governance multilivello (adeguatamente flessibili) e di strumenti di pianificazione strategica e urbanistici (adeguatamente adattivi) che permettano di mettere a sistema nodi e reti dello sviluppo in forme più distribuite e non erosive delle risorse territoriali più preziose. Dovranno essere capaci di erogare sempre più servizi comprensoriali ed ecosistemici, soprattutto quelli legati all’innovazione, alla qualità e sicurezza della produzione, alla salute, all’attrattività e ai cicli integrati del metabolismo urbano (energia, acqua, rifiuti). Ma dovranno anche essere capaci di aggregare le comunità locali attorno a progetti condivisi che pur mantenendone la diversità manifestino un elevato grado di identità collettiva. Infine, dovranno concorrere alla realizzazione di un habitat ecologicamente sostenibile attraverso la riduzione del consumo di suolo e la promozione dei principi e delle pratiche di rigenerazione urbana, di riciclo, nonché al miglioramento dei cicli vitali delle città.
La nuova strategia insediativa dell’Italia multiurbana si può declinare attraverso cinque opzioni incrementali:
- a) ripensare i luoghi dell’abitare verso forme più ibride e flessibili che consentano l’accoglienza di più cicli di vita, soprattutto nelle condizioni di crisi;
- b) ridisegnare, modernizzare e rendere sicuri i servizi di rango metropolitano per gli abitanti, spesso temporanei, che ridefiniscono continuamente le relazioni umane e spaziali;
- c) sviluppare pratiche per l’inclusione sociale e per il ridisegno del nuovo welfare, soprattutto in riferimento ai quartieri ex-periferici che in prospettiva policentrica saranno le nuove aree cerniera di raccordo dei territori più ampi, attraverso la localizzazione delle nuove centralità ecosistemiche;
- d) ridefinire ruolo e modalità delle città metropolitane e degli arcipelaghi nell’attrarre i segmenti più adeguati delle filiere produttive ridistribuendole attraverso un ruolo di commutatore territoriale dei flussi delle reti lunghe in risorse per lo sviluppo locale, ma anche secondo un principio di maggiore resilienza agli shock;
- e) infine, ridefinire la governance in termini di interdipendenze selettive e non secondo un mero principio di aggregazione di competenze e interessi, o secondo confini istituzionali a cui non corrisponda una efficace sussidiarietà abilitante.
Le visioni e le opzioni operative sopra sintetizzate costituiscono per le nuove città metropolitane e per i rinati arcipelaghi territoriali italiani la sfida di agire entro un rinnovato capitalismo di territorio, in cui la risorsa primaria è costituita dalle eccellenze territoriali, dai palinsesti culturali e paesaggistici, dalla posizione geografica, dalla gestione dei flussi, dalla potenza relazionale, dall’offerta di sostenibilità urbana, dalla tutela della salute pubblica e dalla connettività sociale. Nel dibattito sul futuro delle città nell’Italia multiurbana dovrà essere protagonista una visione progettuale capace di reimmaginare le energie aggregative metropolitane e interconnettere le nuove economie arcipelago in cui al conflitto perenne tra la predominanza del locale e l’arroganza del globale, tra l’ipertrofia del centro e la fragilità dei margini si sostituisce la creatività e la resilienza delle interdipendenze selettive e degli ecosistemi.
La vera Fase 2 sarà un’Italia che rinnovi il patto tra metropoli e territori interni, ma servirà audacia.
[1] Il testo fondamentale è E. Soja, Postmetropolis: Critical Studies of Cities and Regions, Oxford, Blackwell, 1999; Si vedano anche gli studi di N. Brenner, New State Space: Urban Governance and the are scaling of Statehood, Oxford, Oxford University Press, 2004 e Implosion/Explosion:Towards a Study of Planetary Urbanization, Berlin, Jovis, 2014. Sulle metamorfosi dell’urbanistica nell’era della transizione metropolitana verso un nuovo modello di sviluppo si vedano: A. Balducci, V. Fedeli, F. Curci, Oltre la Metropoli, L’urbanizzazione regionale in Italia, Milano, Guerini, 2017; M. Carta, Futuro. Politiche per un diverso presente, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019.
[2] Cfr. C. Cattaneo, “La città considerata come principio ideale delle istorie italiane”, Il crepuscolo, nn. 42, 44, 50 e 52, 1858.
[3] Cfr. M. Carta, Augmented City. A Paradigm Shift, Trento-Barcelona, Listlab, 2017.